Nella malattia di Huntington preclinica rilevato un deficit di inibizione

 

 

GIOVANNI ROSSI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XIV – 16 gennaio 2016.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

Fino a non molti anni fa, quando la malattia di Huntington era ancora chiamata corea di Huntington, l’approccio diagnostico alle più frequenti malattie neurodegenerative si avvaleva di uno schematismo operativo fondato sulle più tipiche presentazioni cliniche: la malattia di Alzheimer era considerata una demenza senza segni motori; la malattia di Parkinson come un disturbo motorio senza deficit cognitivo; la malattia di Huntington come una corea con deterioramento intellettivo, più spesso in donne con anamnesi familiare positiva[1]. I progressi compiuti nella conoscenza delle basi patologiche di queste malattie hanno significativamente inciso sulla concezione della diagnosi, contribuendo al riconoscimento precoce di segni rilevati strumentalmente anche nei casi con presentazione clinica non tipica, ma hanno reso più problematico il primo approccio, che tiene conto di una realtà più complessa, nella quale sono inclusi aspetti poco noti.

Per giungere ad una nuova diagnostica, operativamente accurata ed efficiente, sono necessari studi che indaghino e ridefiniscano i rapporti fra processi patologici e manifestazioni clinicamente significative. Proprio nell’ambito di tale tipo di ricerca, si inserisce un lavoro di April L. Philpott e colleghi che, certi dell’utilità dell’indagine fisiopatologica per la comprensione dei meccanismi della malattia, hanno studiato mediante stimolazione magnetica transcranica (TMS) il campione più numeroso mai analizzato di persone portatrici di malattia di Huntington in fase preclinica o affette dalla malattia in fase precoce ma già clinicamente evidente.

Gli autori dello studio hanno indagato la presenza di deficit di inibizione corticale e il rapporto fra la riduzione del’inibizione GABA e le tre manifestazioni sintomatologiche principali, ottenendo risultati di sicuro interesse (Philpott A. L., et al. Cortical inhibitory deficits in premanifest and early Huntington’s disease. Behavioural Brain Research 296: 311-317, 2016).

La provenienza degli autori è la seguente: Monash Alfred Psychiatry Research Center, Central Clinical School, Monash University, Melbourne, VIC (Australia); Department of Neurology, Monash Medical Centre, Clayton, VIC (Australia); School of Psychological Sciences and Monash Institute of Cognitive and Clinical Neurosciences, Monash University, Clayton Campus (Australia);

Circa cinque anni or sono, introducendo uno studio che aveva identificato un marker di attività patologica nella malattia di Huntington, Diane Richmond si esprimeva così: “La malattia coreica, descritta come disturbo ipercinetico ereditario per la prima volta nel 1872 in una famiglia di Long Island da George Huntington, medico di Pomeroy nell’Ohio, è una grave patologia neurodegenerativa ad andamento progressivo che attualmente riguarda, nelle varie fasi della sua evoluzione, circa 30.000 persone nell’America del Nord.”[2].

La malattia, che in circa il 90% dei casi è ereditata come un carattere mendeliano autosomico dominante e nel rimanente 10% è originata de novo, è causata da disfunzione e degenerazione di neuroni dei nuclei della base del telencefalo (gangli basali) e poi di regioni corticali, con la conseguenza sintomatologica di movimenti involontari come di danza (corea), vari sintomi psichiatrici e, infine, demenza[3]. In particolare, è stata osservata una precoce disfunzione e perdita di interneuroni inibitori GABAergici delle formazioni dello striato, cui conseguono i segni e sintomi iniziali.

Fin dall’inizio degli anni Ottanta, grazie a studi condotti da numerosi ricercatori, che includevano Gusella e Tanzi[4], si è stabilito il collegamento fra la malattia di Huntington e la ripetizione della tripletta nucleotidica CAG nell’esone 1 del gene HTT codificante l’huntingtina (htt) localizzata sul cromosoma 4q16. Tale rilievo include questo grave disturbo coreico fra le patologie da ripetizione di triplette, o CAG-polyglutamine (Poly-Q) repeat diseases, definite quali disturbi neurodegenerativi ereditari causati dalla abnorme espansione di un tratto di ripetizione della tripletta CAG, con la conseguente sintesi di una proteina con un abnorme segmento poliglutamminico. In generale, le malattie da triplette sono caratterizzate dalla ripetizione di tre coppie di basi nucleotidiche, che possono essere presenti sia in regioni codificanti che non codificanti, dando luogo ad una moltitudine di differenti fenotipi ereditati, sia con modalità legata al cromosoma X[5] che autosomica dominante e recessiva. L’ereditarietà della malattia di Huntington familiare, come già riportato, è autosomica dominante. Le malattie neurologiche da espansioni di triplette ripetute, riconosciute e descritte dalla nosografia classica, sono 9: la malattia di Huntington; l’atrofia muscolare spinale e bulbare (SBMA); l’atrofia dentato-rubro-pallido-luysiana (DRPLA); sei forme di atassia spinocerebellare (1, 2, 3, 6, 7 e 17). Tutte queste patologie presentano una correlazione inversa fra il numero di ripetizioni e l’età di insorgenza, risultante in un fenotipo patologico di gravità crescente quando la malattia è trasmessa da una generazione all’altra, per effetto dell’accrescersi della lunghezza di espansione della sequenza CAG dell’allele mutante: un fenomeno chiamato anticipazione.

Se da una parte è stabilito con certezza che la lunghezza del tratto di ripetizione delle triplette nucleotidiche è strettamente correlata con l’età di inizio della malattia, dall’altra solo circa il 50-70% della variazione inter-individuale di età di insorgenza può essere spiegata col numero di triplette. Si suppone pertanto un ruolo di altri fattori genetici e non genetici nel determinare l’età di inizio della sintomatologia clinica.

Il numero delle triplette è rilevante perché si realizzi l’alterazione clinicamente manifesta: da 36 ripetizioni in su si sviluppa la terribile patologia, anche se fra 36 e 39 sono descritti casi di penetranza incompleta. In un grafico di distribuzione della lunghezza del tratto di ripetizioni in pazienti affetti da malattia di Huntington, l’intervallo medio è fra 40 e 45, ma lo spettro completo è molto ampio e si estende, come è noto da oltre vent’anni, da 35 a 120[6].

L’huntingtina è fisiologicamente localizzata nel citoplasma, ma può trasferirsi nel nucleo dove sembra agire regolando la trascrizione genica; inoltre è stato documentato un ruolo nel trasporto delle vescicole e nel traffico di RNA. Gli effetti tossici dell’huntingtina mutata includono inibizione di proteasomi, chaperon e autofagia, con le possibili conseguenze di accumulo di proteine ripiegate in maniera anomala o di interferenza con la trascrizione genica. L’huntingtina mutata ha la tendenza ad andare incontro a cambiamenti di conformazione, ad esempio formando anomale strutture in β-configurazione (a “fogli pieghettati”).

Nel cervello dei pazienti esaminato post mortem, le caratteristiche cellulari consistono in grandi aggregati di huntingtina nei neuroni, prevalentemente nel nucleo, ma anche a sede citoplasmatica, nei dendriti e nei terminali assonici. Si ritiene che tali aggregati non rappresentino di per sé l’elemento tossico, ma semplicemente costituiscano un modo impiegato dalla cellula di disporre monomeri ed oligomeri della proteina mutata che, in quella forma, risultano maggiormente citotossici[7].

Le funzioni normali della htt, che è una proteina nucleocitoplasmatica presente sia negli assoni che presso le sinapsi, prevedono spesso delle interazioni proteina-proteina e includono la regolazione della segnalazione del calcio e interventi nel trasporto assonico. Fra gli studi sulla fisiologia dell’htt alcuni hanno dimostrato un ruolo in processi che possono controbilanciare quelli che portano all’apoptosi. I risultati della ricerca alla base delle conoscenze attuali sulla patologia molecolare della malattia di Huntington sono invece difficili da sintetizzare, e costituiscono materia di trattazioni specialistiche alle quali si rimanda il lettore[8]. Qui di seguito si riportano solo alcuni spunti.

L’htt mutata tende a formare aggregati che si rivelano resistenti alla proteolisi, probabilmente per la formazione di legami crociati fra le sequenze poliglutamminiche. Altra caratteristica del polipeptide patologico è l’induzione di incremento di espressione di fattori pro-apoptotici, quali la caspasi-1 e la caspasi-3 attivata. È stata anche dimostrata l’alterazione della funzione dei proteasomi che può compromettere la regolazione trascrizionale ed associarsi a cambiamenti di attivazione di varie proteine associate, quali la proteina associata all’huntingtina 1 (HAP1) e le proteine interagenti con l’htt che, a loro volta, possono interessare le vie di trasporto intracellulare, l’omeostasi del Ca2+ ed altri processi. Infine, nella patologia della malattia di Huntington, sono stati rilevati disturbi del metabolismo energetico mitocondriale.

April L. Philpott e gli altri autori dello studio qui recensito, certi che la comprensione della fisiopatologia possa contribuire alla definizione dei meccanismi della malattia, hanno deciso di indagare mediante stimolazione magnetica transcranica (TMS) un campione che numericamente è il più numeroso finora studiato con questa metodica, costituito sia da persone portatrici in fase preclinica (premanifest) sia da volontari già sintomatici. In proposito, si deve osservare che la diagnosi clinica, basata sulla comparsa di movimenti involontari coreiformi, tipicamente avviene nell’età media della vita, quando il processo patologico è attivo già da molto tempo. In realtà è stato osservato che le persone in pre-Huntington, ossia gene-positive ma clinicamente silenti, presentano uno spettro di modificazioni neuropatologiche già 15-20 anni prima che si abbiano manifestazioni apprezzabili soggettivamente ed oggettivamente alla semeiotica neurologica classica, e piccolissimi segni neurocognitivi, psichiatrici e motori sono evidenti meno di 10 anni prima dell’esordio. In effetti, in contrasto con la massa notevole di dati e nozioni sulla patologia della malattia in diversi stadi di evoluzione, rimangono ancora limitate le conoscenze relative alle proprietà fisiopatologiche dei neuroni implicati nei circuiti cortico-sottocorticali maggiormente colpiti. Philpott e colleghi, cercando informazioni su tali proprietà, sperano di fornire conoscenze sul modo in cui i neuroni procedono fino alla morte cellulare.

La TMS consente di valutare l’integrità funzionale di circuiti cortico-sottocorticali in una maniera non invasiva, generando un campo magnetico che penetra inavvertito attraverso il cranio e depolarizza i neuroni. Dopo la stimolazione delle aree motorie della corteccia cerebrale, può essere rilevata l’ampiezza dei potenziali motori evocati  (MEP) dalla TMS mediante l’elettromiografia (EMG) di un muscolo periferico, e si può studiarla facendo variare l’intensità dello stimolo ed altri parametri. L’iperpolarizzazione dei neuroni post-sinaptici mediata dai recettori GABAA può essere valutata con un metodo bene stabilito, quale il paradigma dell’inibizione corticale ad intervallo breve (SICI, da short-interval cortical inhibition); mentre i protocolli dell’inibizione corticale ad intervallo lungo (LICI, da long-interval cortical inhibition) e del periodo corticale silente (CSP, cortical silent period) consentono di analizzare i circuiti la cui attività è mediata dai recettori GABAB. È ormai unanimemente riconosciuta l’utilità della TMS come mezzo di indagine per la comprensione della fisiopatologia di un ampio spettro di disturbi neurologici e per la individuazione di biomarkers funzionali, ma fino ad oggi è stata scarsamente impiegata per la malattia di Huntington.

Gli autori dello studio, prefiggendosi di esaminare e comparare le variazioni fisiopatologiche in volontari preclinici ed affetti, hanno impiegato 7 misure TMS di rilievo: 1) la soglia di riposo (RMT); 2) la soglia di attività (AMT); 3/4) il CSP a due diverse intensità di stimolo; 5) SICI; 6) ICF; 7) LICI. In tal modo, prima di tutto, hanno caratterizzato un profilo di eccitabilità, inibizione e facilitazione nei campioni preclinico e clinico, poi hanno indagato i correlati clinici, neurocognitivi e psichiatrici delle misure TMS[9], per una migliore comprensione dello sviluppo dell’eterogeneità fenotipica.

Il campione era costituito da 16 volontari in fase preclinica (premanifest HD), 12 in fase sintomatica precoce e 17 sani fungenti da gruppo di controllo. Protocolli di TMS ad impulso singolo ed appaiato sono stati impiegati per l’erogazione sull’area corrispondente alla corteccia motoria primaria dell’emisfero sinistro, con l’elettromiografia di superficie registrata dal muscolo abduttore breve del pollice.

L’inibizione corticale ad intervallo breve (SICI) era significativamente ridotta nei pazienti con malattia già sintomatica, rispetto ai volontari preclinici e agli stessi controlli sani, ed era significativamente correlata con la gravità delle manifestazioni patologiche e con la prestazione neurocognitiva. È stata rilevata anche una riduzione dell’inibizione corticale ad intervallo lungo (LICI) sia nei volontari con malattia non ancora manifesta sia in quelli sintomatici, paragonati ai volontari sani del gruppo di controllo; tale riduzione era associata all’entità delle manifestazioni patologiche e dei disturbi psichiatrici.

Al contrario, la soglia motoria, i periodi corticali silenti e la facilitazione intracorticale non presentavano differenze fra i tre gruppi.

L’analisi dettagliata dei risultati, per la quale si rinvia alla lettura integrale del testo del lavoro originale, fornisce nuovi e importanti elementi di conoscenza nell’ambito dei cambiamenti fisiopatologici indotti nei circuiti cortico-sottocorticali dall’evoluzione della malattia. Gli autori dello studio propongono l’impiego delle misure ottenute mediante TMS come biomarkers endofenotipici di malattia di Huntington, per la loro associazione sia con la gravità patologica che con il fenotipo clinico.

 

L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giovanni Rossi

BM&L-16 gennaio 2016

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

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[1] L’incidenza pressoché identica nei due sessi è oggi registrata dalla maggior parte degli studi epidemiologici e riportata nella trattatistica neurologica americana; tuttavia, un maggior numero di diagnosi nel sesso femminile è stata a lungo la regola nell’esperienza clinica europea.

[2] Note e Notizie 22-10-11 Un marker per la malattia di Huntington.

[3] L’età media di insorgenza è intorno ai 40 anni, il decorso termina con esito infausto 15-20 anni dopo. La prevalenza è molto più bassa di quella delle altre patologie neurodegenerative causanti demenza ed è prossima a quella della SLA.

[4] Gusella J. F., et al. A polymorphic DNA marker genetically linked to Huntington’s disease. Nature (5940): 234-238, 1983.

[5] È il caso dell’atrofia muscolare spinale e bulbare (SBMA).

[6] Gusella J. F. & McDonald M. E., Huntington’s disease: CAG genetics expands neurobiology. Current Opinion in Neurobiology 5 (5): 656-662, 1995.

[7] Ross C. A. & Tabrizi S. J., Huntington’s disease: From molecular pathogenesis to clinical treatment. Lancet Neurology 10 (1): 83-98, 2011. (Buona rassegna delle implicazioni funzionali dell’htt anche se aggiornata a 5 anni fa).

[8] Una buona introduzione si trova in tre capitoli (41, 48 e 49) di Brady, Siegel, Albers e Price (editors), Basic Neurochemistry, Elsevier AP, Waltham (MA, USA), 2012.

[9] Lo studio qui recensito è in gran parte basato su un lavoro che ha costituito un modello in questo campo, realizzato da Schippling e colleghi, i quali hanno investigato in 16 presintomatici e sintomatici RMT, AMT, CSP e SICI. Philpott e colleghi hanno aggiunto ICF, LICI e molti altri rilievi neurocognitivi e psichiatrici in un campione più numeroso.